Terre e rocce da scavo: rifiuti o sottoprodotti?

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Il trattamento a calce o cemento delle terre da scavo non costituisce (più) una normale pratica industriale

Gaetano Alborino

L’articolo 2, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 120/2017 definisce le terre e le rocce da scavo: “il suolo escavato derivante da attività finalizzate alla realizzazione di un’opera, tra le quali: scavi in genere (sbancamento, fondazioni, trincee); perforazione, trivellazione, palificazione, consolidamento; opere infrastrutturali (gallerie, strade); rimozione e livellamento di opere in terra. Le terre e rocce da scavo possono contenere anche i seguenti materiali: calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro (PVC), vetroresina, miscele cementizie e additivi per scavo meccanizzato, purché le terre e rocce contenenti tali materiali non presentino concentrazioni di inquinanti superiori ai limiti di cui alle colonne A e B, Tabella 1, Allegato 5, al Titolo V, della Parte IV, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, per la specifica destinazione d’uso”.

L’articolo 184, comma 3, lett. a), d.lgs. n. 152/2006, nella versione revisionata dal d.lgs. n. 116/2020, ricomprende tra i rifiuti speciali, quelli prodotti dalle attività di costruzione e demolizione, nonché quelli che derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto disposto dall’articolo 184-bis.

Le terre e rocce da scavo sono, dunque, rifiuti, salvo che ricorrano le condizioni per essere classificati come sottoprodotti, ai sensi dell’art. 184-bis del d.lgs. n. 152/2006, e devono essere opportunamente e correttamente distinte dai rifiuti da costruzione e demolizione, in quanto, mentre lo scavo ha per oggetto il terreno, la demolizione ha per oggetto un edificio o, comunque, un manufatto costruito dall’uomo.

Tale distinzione è più ancora rilevante, se si tiene poi conto che, per le sole terre e rocce da scavo è apprestata, ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge n. 133/2014, una disciplina speciale, costituita dal D.P.R. n. 120/2017.

La normativa da ultima citata, infatti,all’articolo 3, esclude dal suo ambito di applicazione i rifiuti provenienti direttamente dall’esecuzione di interventi di demolizione di edifici o di altri manufatti preesistenti, la cui gestione è disciplinata ai sensi della Parte IV del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.

L’articolo 4, comma 2, del d.P.R. n. 120/2017 stabiliscepoi che le terre e rocce da scavo siano qualificate come sottoprodotti – e dunque reimpiegate anche nell’attività edilizia – e non come rifiuti, ma a determinate condizioni, tra cui alla lett. c) è previsto che ciò possa avvenire qualora la stesse: “sono idonee ad essere utilizzate direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”

Quali siano le “normali pratiche industriali” è poi specificato dall’allegato 3 al regolamento, ma tra queste non è compresa la stabilizzazione a calce o cemento, a differenza di quanto era previsto dall’abrogato d.m. n. 161 del 2012, all’allegato 3, che tra le “normali pratiche industriali” vi faceva rientrare proprio “la stabilizzazione a calce, a cemento o altra forma idoneamente sperimentata per conferire ai materiali da scavo le caratteristiche geotermiche necessarie per il loro utilizzo, anche in termini di umidità, concordando preventivamente le modalità di utilizzo con l’ARPA o APPA competente in fase di redazione del Piano di Utilizzo”.

Recentemente il Consiglio di Stato, Sezione V, 7 gennaio 2022, n. 48,pronunciandosi sullo status giuridico delle terre da scavo, ha affermato, in linea con la sopraggiunta novella legislativa, il seguente principio di diritto:“la normativa tuttora vigente non consente il reimpiego dei terreni a seguito di processi di stabilizzazione a calce o cemento”.

 

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