Diritto al risarcimento danni per la presenza dei “vu lavà” ai semafori ! Cass., sez. Un., 02/07/2015, n. 13568.

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A leggere le decisioni dei Tribunali spesso sembra assistere ai quei film degli anni ’60 tipo “Un giorno in Pretura“, ma in questo caso sono le Sezioni Unite della Cassazione a doversi occupare del bizzarro caso in commento.

Un cittadino conviene in giudizio dinanzi al Giudice di pace il Comune di Udine, chiedendone la condanna al risarcimento del danno esistenziale, quantificato in via equitativa in euro 2.500, che ha assunto di aver patito quale “cittadino automobilista circolante e fruitore delle strade pubbliche”, addirittura per il disagio e l’ansia che gli sarebbero derivati dalla “pratica di pedoni ben vestiti e ben pasciuti, anche deambulanti con stampella/e, muniti di cartello, marsupio e berretto” che, all’altezza di un impianto semaforico, da oltre un anno erano soliti chiedere denaro agli automobilisti.

La responsabilità di tutto ciò, secondo il cittadino, era da addebitare al Comune quale ente proprietario della strada, per non avere adottato, ai sensi dell’art. 14 del Cds, misure idonee ad impedire o far cessare questi comportamenti “molesti”, oltre che “pericolosi per la circolazione”.

Il Tribunale di Udine in funzione di giudice di appello osserva, invece, che il motivo del contendere è la mancata adozione, da parte del Comune, di misure atte ad interrompere la pratica dell’accattonaggio all’incrocio dove l’attore si trova abitualmente a transitare. Il danno esistenziale lamentato, lungi dal derivare direttamente dalla cosa, dipenderebbe dal mancato esercizio da parte del Comune di poteri autoritativi volti a porre fine al lamentato fenomeno attraverso lo sgombero dalla pubblica via dei questuanti che vi indugiano.

 

Nel ricorso per Cassazione, il ricorrente, afferma che “l’errore della sentenza impugnata consiste nel non voler concettualmente ed oggettivamente equiparare il pedone fuori posto al tronco caduto sull’asfalto e perciò anch’esso fuori posto rispetto al diritto di circolare dell’automobilista ricorrente”.

Già questo dovrebbe essere sufficiente, ma continua affermando che “I pedoni che domandano soldi nella carreggiata destinata alla circolazione delle automobili […] non possono rientrare nell’ipotesi del caso fortuito e/o forza maggiore. L’ente proprietario-custode della strada deve eliminare materialmente, senza soluzione di continuità, tutte le insidie ed i pericoli che minacciano le garanzie di sicurezza e di fluidità della circolazione veicolare, diversamente si rende inadempiente nei confronti dell’avente diritto automobilista ricorrente”.

Cercando di fare chiarezza sulla questione, il Collegio afferma che, viceversa, le censure articolate muovono dalla premessa che i “pedoni che domandano (con insistenza) soldi sulla strada comunale” siano equiparabli “al tronco caduto sull’asfalto e perciò […] fuori posto rispetto al diritto di circolare dell’automobilista ricorrente”, di talché il Comune sarebbe “tenuto alla materiale attività di sgombero della carreggiata da tali pericoli/insidie per garantire la sicurezza e la fluidità del traffico”.

Quando, infatti, viene in rilievo un’attività umana espressione di una forma di mendicità e di una “semplice richiesta di aiuto” (Corte cost., sentenza n. 519 del 1995) proveniente da chi si trova in condizioni di povertà, non è pertinente il richiamo al dovere dell’ente proprietario della strada di porre in essere una attività materiale, un mero comportamento di “pulizia delle strade”, come recita l’art. 14 del codice della

strada.

Pur non prendendo posizione esplicita sulla questione, la Suprema Corte richiama tutti al rispetto delle semplici ed elementari regole della convivenza, rigettando, comunque il ricorso affermando la competenza del Giudice Amministrativo richiamando l’azione amministrativa, pur indirizzata alla tutela di beni pubblici importanti (l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana), deve muoversi nel necessario rispetto della dignità della persona umana e dei diritti degli “ultimi”, essendo destinata a risolversi in prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni a coloro che ne sono destinatari.

Conclude riaffermando che “la pretesa a che un’autorità amministrativa eserciti i poteri che la legge le assegna per la tutela di un interesse pubblico non può sicuramente essere configurata come un diritto soggettivo di colui il quale quella pretesa voglia far valere in giudizio, né quando essa investa la scelta dell’amministrazione se esercitare o meno quel potere, in una situazione data, né quando sia volta a sindacare i tempi ed i modi in cui lo si è esercitato”.

Può dunque “solo eventualmente qualificarsi come interesse legittimo quello del privato ad ottenere o a conservare un bene della vita quando esso viene a confronto con un potere attribuito dalla legge all’amministrazione non per la soddisfazione proprio di quell’interesse individuale, bensì di un interesse pubblico che lo ricomprende, per la realizzazione del quale l’amministrazione è dotata di discrezionalità nell’uso dei mezzi a sua disposizione”.

La posizione soggettiva di cui l’attore pretende la tutela non è, nemmeno in astratto, qualificabile in termini di diritto soggettivo, ma, semmai, di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.

Consueta notazione a margine. Spesso dalle pagine di questo sito abbiamo commentato le strampalate Ordinanze Sindacali emesse ex lege 267/00, ma quanto visto più sopra supera anche la più fervida fantasia giuridica dei Sindaci. Con riserva di approfondire la sentenza in commento per tutta un’altra serie di implicazioni di sicuro interesse, ne consiglio la lettura anche solo per il gusto di sorridere (amaramente) sulla scia di “un giorno in pretura” del terzo millennio.

 

Michele Orlando

 

 

P.A.sSIAMO

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