Qual è la verità sulla falsa dichiarazione resa in applicazione del DPCM? – parte III

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Partendo dal presupposto che “Non importa sapere le cose, nel nostro mondo di gruppi whatsapp… importa far finta di saperle.”, dopo aver fatto passare, e volutamente, il tempo necessario a far sfumare i “vapori” derivanti dall’esplosione della sentenza resa dal GIP del Tribunale di Milano del 12 marzo u.s., oggi vorrei verificare se è vero quanto letto nelle chats di cui sopra.

Cioè che il Giudice abbia affermato che non vi è obbligo di dire la verità e che il DPCM è illegittimo perchè non assurge a rango di norma primaria.

Come già per le precedenti Qual è la verità sulla falsa dichiarazione resa in applicazione del DPCM?   e Qual è la verità sulla falsa dichiarazione resa in applicazione del DPCM? – parte II   verifichiamo prima i fatti.

Tizio, il 14 marzo del 2020, viene controllato nella stazione Milano Cadorna e compila la dichiarazione ex artt. 46 e 47 del DPR n. 445/2000, attestando di trovarsi in transito a Milano per poter far ritorno alla propria abitazione, dopo aver svolto la propria attività lavorativa in un negozio ubicato nel comune di Milano.

Successivamente, poi, gli Operanti hanno chisto conferma di quanto dichiarato al datore di lavoro, il quale a mezzo mail ha riferito che il 14 marzo Tizio non era stato impegnato in alcuna attività lavorativa.

Sulla scorta di tale accertamento  a carico di Tizio è stato emesso Decreto Penale di condanna per violazione dell’art. 483 c.p. in relazione alla falsa dichiarazione resa ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR n. 445/2000.

Impugnato il Decreto penale di condanna il difensore ha allegato un’attestazione del datore di lavoro che, contrariamente a quanto verificato dagli Operanti, conferma la presenza di Tizio sul luogo di lavoro fino alle ore 18.15.

Ciò premesso, il GIP pur riscontrando un contrasto fra la prima e la seconda dichiarazione del datore di lavoro, osserva che, comunque, il reato di falso ideologico non sussiste, neppure astrattamente, per mancanza del presupposto costituitivo della fattispecie delittuosa di cui all’art. 483 c.p. contestata.

Secondo il Giudice, l’art. 483 c.p., infatti, incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità Il riferimento ai “fattiè contenuto nell’art. 46 DPR 445/2000, il quale consente di comprovare con una semplice dichiarazione del privato in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti”; nel comma 1 dell’art. 47, il quale consente al privato di sostituire l’atto di notorietà con una dichiarazione sostitutiva che abbia ad oggetto ”fatti che siano a conoscenza dellinteressato” (comma 1); nel comma 2 della disposizione richiamata che si riferisce, quale contenuto alternativo della dichiarazione del privato, agli stati, qualità personali e fatti  relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza“; infine, nel terzo comma del citato art. 47, il quale prevede che nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’art. 46 sono comprovati dall’interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”.

Per pacifica giurisprudenza di legittimità, le false dichiarazioni del privato integrano infatti il delitto di falso in atto pubblico quando sono destinate a provare la verità dei fatti cui si riferiscono nonché ad essere trasfuse in un atto pubblico: secondo la Corte, in altri termini, il delitto previsto dall’art. 483 c.p. sussiste solo qualora l’atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati, e cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto­ documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale. Altresì, si è ritenuto integrato il reato in esame a carico del privato che renda false attestazioni circa gli stati, le qualità personali e i fatti indicati nell’art. 46 del D.P.R. al fine di partecipare ad una gara d’appalto, o che, all’atto di una richiesta finalizzata ad ottenere un passaporto, dichiari falsamente nella dichiarazione sostitutiva di certificazione di non avere riportato ‘sentenze di condanna’, e così via: tutte ipotesi nelle quali una specifica norma giuridica attribuisce all’atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale.

Continuando nella disamina, il GIP afferma che, in tutti i casi quale quello in esame -nel quale l’autodichiarazione in ipotesi infedele è resa dal privato all’atto di un controllo casuale sul rispetto della normativa emergenziale- appare difficile stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale nel quale la dichiarazione infedele sia destinata a confluire con tutte le necessarie e previste conseguenze di legge.

Da un lato, infatti, il controllo successivo sulla veridicità di quanto dichiarato dai privati è solo eventuale e non necessario da parte della pubblica amministrazione: pertanto, quanto dichiarato dal singolo all’atto della sottoscrizione dell’autodichiarazione potrebbe di fatto restare privo di qualunque conseguenza giuridica; dall’altro, occorrerebbe ipotizzare che l’atto destinato a provare la verità dei fatti auto-dichiarati e certificati dal privato sia il successivo (eventuale) verbale di contestazione di una sanzione amministrativa o l’atto di contestazione di un addebito di natura penale, come l’atto di ‘informativa ai fini della conoscenza del procedimento’ e il ‘verbale di identificazione e dichiarazione o elezione di domicilio’

Oltretutto, secondo il GIP, nel  caso di  specie, all’epoca  di  commissione del fatto contestato la violazione delle prescrizioni contenute nel D.P.C.M. dell’8.3.2020 relative al divieto di spostamento fuori dalla propria abitazione o Comune di residenza se non per le comprovate ragioni ivi previste era sanzionata penalmente ai sensi dell’art. 650 c.p.

Sulla scorta di tale ricostruzione, sembrerebbe evidente come non sussista alcun obbligo giuridico, per il privato che si trovi sottoposto a controllo nelle circostanze indicate, di ‘dire la verità’ sui fatti oggetto dell’auto­ dichiarazione sottoscritta, proprio perché non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica che ricolleghi specifici effetti ad uno specifico atto-documento nel quale la dichiarazione falsa del privato sia in ipotesi inserita dal pubblico ufficiale.

Opinando diversamente, peraltro, si dovrebbe concludere ritenendo che il privato sia obbligato a ‘dire il vero’ sui ‘fatti’ oggetto dell’auto-dichiarazione resa pur sapendo che ciò potrebbe comportare la sua sottoposizione ad indagini per la commissione di una condotta  avente rilevanza penale o, ancora, il suo assoggettamento a sanzioni amministrative pecuniarie anch’esse parimenti afflittive e punitive.

Un simile obbligo di riferire la verità non è previsto da alcuna norma di legge e una sua ipotetica configurazione si porrebbe in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo (art. 24 Cost.) e con il principio nemo tenetur se detegere, in quanto il privato, scegliendo legittimamente di mentire per non incorrere in sanzioni penali o amministrative, verrebbe comunque assoggettato a sanzione pena dichiarazioni rese.

Conclude il Giudice “in altri termini, aderendo alla prospettiva del P.M. procedente, Tizio si sarebbe trovato  di fronte all’alternativa di scegliere tra riferire il falso, al fine di non subire conseguenze per sé pregiudizievoli, venendo tuttavia assoggettato a sanzione penale ai sensi degli artt. 483 c.p. e 76 D.P.R. n. 445/2000, oppure riferire il vero nella consapevolezza  di poter essere sottoposto a indagini per il reato di cui all’art. 650 c.p. (avuto riguardo all’epoca di commissione del fatto).

Questo è quanto. Ora si può essere d’accordo o dissentire, ma di certo, dopo aver letto (finalmente) le tre decisioni, si potrà a ragion veduta “sorridere” ri-leggendo i commenti nelle “chat professionali”.

Aspetto Vostre notizie.

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